Serata Colorata. Le musiche del campo di concentramento di Ferramonti
Concerto per il Giorno della Memoria - 26 Gennaio 2017, Roma
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Concerto al LAC di Lugano il 26 aprile 2018
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Ferramonti è una località in provincia di Cosenza dove sorse uno dei più grandi campi di concentramento italiani della seconda guerra mondiale.
I campi di internamento in Italia erano quasi 50: vedi la cartina con la loro localizzazione.
Vi transitarono, fra il giugno 1940 e il settembre 1943, più di 3.000 ebrei stranieri e anche apolidi, dissidenti politici, cittadini di nazioni nemiche, slavi e indesiderati. Oggi pochi ne ricordano anche solo il nome. E’ storia rimasta per decenni sconosciuta, che è un dovere riportare alla memoria.
La zona su cui sorse il campo era povera e malarica. Eppure, nonostante la mancanza di libertà, la carenza di cibo e le malattie, a Ferramonti (come, del resto, negli altri quasi cinquanta “campi del duce”, allora distribuiti nella Penisola) gli internati venivano trattati con rispetto e senza violenze. Anche perché, seppur persecutorio, l’internamento degli ebrei da parte del fascismo – prima della nascita della Repubblica di Salò – non era ancora finalizzato alla Shoah.
Per questo, gli internati del campo, in particolare gli ebrei, conservarono un ricordo generalmente positivo dei loro “carcerieri” (Paolo Salvatore, Mario Fraticelli, Gaetano Marrari); come pure dei contadini dei dintorni e degli abitanti dei paesi vicini (Tarsia, Bisignano, Santa Sofia), che avevano avuto l’opportunità di conoscere e del cappuccino inviato dal Vaticano a vivere nel campo: padre Callisto Lopinot, un missionario di origine alsaziana.
Così a Ferramonti furono possibili attività artistiche e musicali. Nel campo, in particolare, erano internati molti musicisti, alcuni dei quali sarebbero divenuti molto noti nel dopoguerra. Tra essi, il trombettista Oscar Klein, il direttore d’orchestra Lav Mirski, il pianista Sigbert Steinfeld, il cantante Paolo Gorin, il compositore Isko Thaler e il pianista Kurt Sonnenfeld, giovane ebreo viennese, che sperava di espatriare negli Stati Uniti, ma venne arrestato a Milano e inviato a Ferramonti.
Kurt Sonnenfeld
Paolo Gorin
Lav Mirski
Spesso nel campo venivano organizzati concerti musicali, sia strumentali che corali, e spettacoli di vario tipo, cui gli internati dettero il nome di “Serate Colorate”, dove il jazz, il cabaret, l’operetta dominavano la scena. Di tutta questa ricchezza musicale si era quasi persa traccia, finché Armida Locatelli, erede e per anni assistente di Kurt Sonnenfeld, non si presentò un giorno al Conservatorio di Milano con una scatola di spartiti manoscritti che aveva ricevuto in eredità. Erano le musiche scritte ed eseguite a Ferramonti, ma anche fotografie, diari, lettere: un materiale inedito di cui il musicista e musicologo Raffaele Deluca comprese subito lo straordinario valore storico.
“Serata Colorata” riproporrà l’atmosfera degli spettacoli di Ferramonti, basandosi anche sul ricco repertorio iconografico e sulle testimonianze scritte che sono pervenute e raccontando, grazie alla inimitabile voce di Peppe Servillo, la “storia musicale” del campo, ricca di episodi straordinari: da quello dell’armonium spedito dal Vaticano ed entrato nel campo come “materiale bellico”, ai violini che furono costruiti da liutai locali, riconoscenti per essere stati curati dai medici internati. Questi liutai sapevano costruire chitarre, ma si industriano per fabbricare i violini indispensabili all’orchestra; tra loro c’era Nicola De Bonis, creatore di alcuni degli strumenti che suonarono a Ferramonti e che vedremo durante il concerto del 26 gennaio a Roma, portati in sala dalla nipote Rosalba.
E poi ci sono gli spartiti. Moltissimi decorati con disegni sul frontespizio, con annotazioni a margine; tutti con le impronte delle dita dei musicisti; spartiti vivi che raccontano di sogni e di speranze colorate, nella realtà grigia dell’internamento. E ci sono le lettere commoventi di ringraziamento, i diari, le cartoline disegnate a mano, un tesoro inestimabile, perché la storia di Ferramonti è particolarmente ricca e complessa.
Quella vita artistico-musicale diventerà presto, con il coordinamento di Raffaele Deluca, anche un progetto di ricerca musicale e musicologica, con allestimenti espositivi, concerti, convegni, un libro, secondo programmi aperti ad importanti collaborazioni italiane ed internazionali.
Ma ricordare Ferramonti oggi non è significativo solo per questo. In un momento storico in cui si tornano a erigere muri e recinti per isolare i perseguitati, in cui gli egoismi sembrano avere la meglio sulla pietas umana, Ferramonti ci ricorda che – anche sotto le dittature – ognuno di noi può sempre fare qualcosa.
Nel settembre 1943, per una fortunata coincidenza di date e di eventi geopolitici, gli internati di Ferramonti si salvarono da gravissimi rischi: poche settimane, forse pochi giorni e – se l’avanzata degli Alleati fosse stata meno rapida – sarebbero stati trasferiti nel Settentrione e poi, molto probabilmente, deportati nei Lager. Invece, quando vi giunsero i soldati alleati che risalivano lo Stivale, agli ebrei, che non sapevano dove andare, fu concesso di rimanere nel campo, che divenne un centro per “displaced persons”, ma sembrava un incrocio tra uno shtetl e un kibbutz.
Purtroppo di questa storia rimangono pochissime tracce, ricostruite negli anni Ottanta dallo storico Carlo Spartaco Capogreco in un testo ormai classico (Ferramonti. La vita e gli uomini del più grande campo d’ internamento fascista, edito dalla Giuntina di Firenze), il primo libro di uno storico italiano dedicato ad un campo di concentramento fascista.
Dopo la guerra le baracche vennero in gran parte smantellate, e, pochi anni fa, alcune delle ultime sono state snaturate da una “ristrutturazione” inadeguata.
Ricordare nel Giorno della Memoria Ferramonti – dove gli internati seppero, comunque, fare cultura – è un’opportunità e un monito contro ogni forma di persecuzione, ed anche una denuncia nei confronti di chi tende a sminuire il carattere persecutorio del fascismo e delle leggi razziali italiane. Ma è anche un modo per rendere omaggio alla forza d’animo, alla creatività, al coraggio di chi – anche in quella situazione – riuscì a mantenere intatti la dignità, il desiderio di cultura e la forza del sogno. Inoltre, è un modo per ricordare chi, per come ha potuto, si prodigò per aiutare quegli internati.
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